Eroticaria

Rumori di tacchi si sovrappongono ai suoni della strada, ovattati dall’umidità della sera. Sola, cammina nella semi oscurità. Il buio non le ha mai fatto paura. Da sempre è suo compagno di viaggio.
Urla di bimbi dal volume incontrollato la investono, mentre giocano per strada. Clacson impazziti sembrano litigare tra loro. In sottofondo si odono risate di ragazzi, forse provocate dal suo passaggio.
I suoni ed i rumori della città, le erano sempre sembrati strumenti di un’orchestra alla ricerca di un’aria comune, poco prima dell’inizio dello spettacolo. La sinfonia di quei suoni e di quei rumori, spesso era la stessa, con poche sfumature diverse. La città le suonava monotona.
Laddove si stava recando lei invece, vi era solo silenzio.
Odori. Smog miscelato agli aromi provenienti dalle rosticcerie, oppure al fumo delle sigarette, o al tanfo di piscio vicino ai muri. Non le era mai piaciuta la città. Troppe sensazioni diverse buttate lì, come in un minestrone, senza badare né alla quantità e tanto meno alla qualità degli ingredienti.
La campagna era un’altra cosa. Lì glì odori erano costanti, duraturi, ed i suoni armoniosi e persistenti. I rumori degli automezzi si percepivano in lontananza, mentre si avvicinavano. Nel traffico cittadino i suoni la investivano senza il minimo preavviso.
Cinguettii di uccelli in una giornata primaverile, sotto il tepore di un sole che bacia la pelle scoperta per l’occasione, dopo mesi in cui era rimasta celata. Il tepore primaverile la faceva sentire bene. Sin da piccola era convinta che fosse un modo del sole per trasmetterle il suo affetto.
Coccolata dai sui raggi tiepidi, si sentiva felice. Non c’era niente di meglio che stendersi sull’erba di un prato, e starsene lì accarezzata dal vento, ascoltando il fruscio dell’erba alta, interamente avvolta dal tepore di una coperta fatta di raggi di sole.
Ora invece c’era solo un vento freddo attorno a lei, rumori sempre più radi, voci solo di uomini.
Anche gli odori erano diversi. Le rosticcerie avevano lasciato il posto al quartiere a luci rosse. Al suo passaggio le voci tacevano, ed alcuni silenzi erano a tratti inquietanti.
Qualche altra voce le chiedeva se aveva bisogno di una mano per attraversare la strada, con scarsa fantasia.
Qualcun altro le proponeva ben altre cose, che faceva finta di non sentire.
Mentre camminava, cercava di dare un volto a quelle voci roche, seguite da risate sguaiate. Li immaginava tutti allo stesso modo. Con le bocche cadenti ed i denti storti, vestiti di abiti sgangherati e con occhi piccoli e stretti.
Tuttavia questi maleducati erano sempre i benvenuti, quanto meno rispetto a coloro che non parlavano affatto.
In quel quartiere era inutile sperare di non trovare pericoli, o fastidi.
Quasi sempre i fastidi arrivavano dal silenzio. Nel chiasso e nel fragore della città, non si sentiva mai sola. Ogni rumore aveva un volto, ogni suono era un nuovo compagno di viaggio.
In città il silenzio era sinonimo di ignoto. E l’ignoto crea disagio, nel migliore dei casi. I suoi sensi, erano protesi a cogliere il minimo segnale che potesse raccontarle cosa c’era davanti ai suoi occhi spenti, o attorno al suo corpo in balia del silenzio.
Ogni suo passo diventava una sfida, volta a provocare un suono qualsiasi.
Ma nessun suono rispondeva ai suoi passi. Il suo, era un monologo, in attesa di un interlocutore a sorpresa…

Link sul tema:

http://news2000.libero.it/editoriali/edc83.html

No limits

La vita… è una … e va vissuta sino in fondo.
Semplici parole che rimbombano nella mente di Frank, appena uscito dal medico. Tempo.
Acquista al baldacchino del parco una Coca Cola per il gran caldo, ed istintivamente la gira per guardarne la data di scadenza. Vicina.
Nel mentre, non può non ripensare alla sua. Tutti hanno una data di scadenza. Ma fino a quando non sai quando è la tua, la vita può sembrare infinita.
Quando la conosci invece, ogni istante che passa è solo uno in meno che ti rimane.
Un bimbo corre felice, in quel parco del cazzo. Lui ci sarà, anche fra tre mesi, li a correre davanti alla panchina dove Frank sta seduto ora. Sempre felice allo stesso modo. Anche la panchina ci sarà. Ma Frank no, non ci sarà, più. E questo gli sta cominciando a far girare i coglioni.
Perché è toccato proprio a lui? Vent’anni, poco più.
Davanti a Frank passa una vecchietta, tranquilla, lenta. Lei la sua vita l’ha vissuta tutta, non ha più fretta di andare da nessuna parte. Aspetta solo che arrivi la data di scadenza. Invidia. Quanto vorrebbe adesso sapere com’è diventare vecchio, vivere una vita, avere dei figli. Invece no. Non può più neanche sognare.
Tutto quello che fino a qualche ora prima gli sembrava normale, adesso non ha più senso.
Nel parco c’è una calma apparente. Persone li sedute ad aspettare il tempo che passa, mentre lui ha i giorni contati. Un’ansia lo pervade, istante dopo istante. Sete.
Prende un’altra Coca. Però stavolta non la paga. Perché pagarla in fondo?
Quello del baldacchino lo guarda mentre si siede sulla panchina li vicino, con lo sguardo assente, e gli urla dietro qualcosa. Nessuna reazione.
Frank comincia a pensare.
Quante cose facciamo perché bisogna farle. Non sappiamo neanche perché, ma le facciamo. E quante altre vorremo farle ma non ce lo permettiamo.
Limiti che non esistono, se non perché noi lo vogliamo. Nuova prospettiva?
Che senso ha frenarsi quando non vi è più nulla da perdere…
Il tipo del baldacchino continua ad inveire sul bevitore di Coca Cola a scrocco.
Perché non gli aveva pagato la Coca Cola?
Era la stessa domanda che si stava ponendo colui che la sorseggiava, provando oltre al solito gusto, anche un brivido lungo la schiena, per non averla presa secondo quanto stabilito dalle abitudini diffuse.

Il venditore ambulante si avvicinò minaccioso a richiedere il pagamento della lattina. Frank lo guardò. Poi gli restituì la lattina mezza vuota, visto che ci teneva tanto. L’altro sembrava non capire, e così Frank gli spiegò che non aveva più sete.
L’ambulante se ne andò in malo modo, capendo che non c’era molto da fare.
La calma di quel parco lo irritava. Sentiva dentro di se come un grande orologio che scandiva i secondi che passavano, e la sensazione che provava per questo era … di estrema solitudine.
Si nasce e si muore da soli. Tutto il resto della vita facciamo cose assieme agli altri. Viviamo con gli altri. Con alcuni talmente vicini da sembrare uniti. Eppure nel momento della morte, saremo soli. Frank si sentiva sul sentiero che portava inesorabilmente verso quella meta, ed un po’ si sentiva già morto.
La solitudine gli stava facendo vedere le cose sotto una luce diversa. Erano più lontane, distaccate, e mano a mano che le sentiva più distanti, aumentava verso di loro l’indifferenza, il fastidio…l’odio.
Un bambino continuava a passargli vicino, schiamazzando. Era piccolo, rannicchiato per terra, in quel vestitino rosso che lo faceva tondo. Sembrava una palla da Basket.
Era li nel prato, a due metri dalla fontana.
Un sorriso strano si disegnò sul viso di Frank. A lui piaceva giocare a calcio. Faceva il portiere. Ed ogni portiere sa fare grandi rinvii. In fondo gli rompeva pure i coglioni. La mamma non lo stava neanche guardando. Perché no?
C’erano un sacco di cose che non aveva ancora fatto nella vita. Alcune gli erano solo passate per la mente, qualche volta, e le aveva lasciate andare nel catalogo delle fantasie. Ma adesso non aveva più niente da perdere in fondo. E quel moccioso gli provocava pure un’invidia incredibile.
Lui avrebbe visto il 2050 forse, ma Frank sicuramente no.
Fu un attimo.
Tre passi di rincorsa ed il suo piede si stampo sul culetto del bimbo. Non fece neanche un fiato. Volò per tre metri, e cadde dritto nella fontana.
Frank aveva studiato il tiro per oltrepassarla, ma era più pesante del previsto.
Il bimbo sguazzava nella fontana, non molto profonda, ma per lui lo era anche troppo. Lo guardava mentre stava per annegare, provando un misto di indifferenza e di soddisfazione, forse per il fatto che almeno il bimbo lo avrebbe preceduto nella dipartita.
La vecchietta di prima, nel frattempo si aggirava ancora per il parco, e sebbene non più scaltra come un tempo, notò ben prima della madre il bimbo che si dibatteva nelle acque. Senza emettere un fiato, si sporse dentro alla fontana cercando di tirarlo fuori.
Frank, rimase un po’ stizzito dalla cosa, e visto che la nonnina non riusciva ad arrivare a prendere la manina del piccolo, pensò bene di aiutarla. Passò li vicino e con un colpetto ben assestato, sbilanciò la vecchietta che andò a far compagnia al bimbo dentro la fontana.
A quel punto la madre si voltò, attratta dal tonfo della vecchia nell’acqua. Frank capì che era il momento di dileguarsi, ma non voleva farlo con la coda tra le gambe, e così per complicare un po’ la situazione, si mise ad urlare che una vecchietta impazzita stava cercando di suicidarsi dentro la fontana con un bimbo in braccio.
Il seguito è facile da immaginarsi.
Mentre Frank si allontanava sghignazzando, tutta la gente del parco, mamma in testa, si stava tuffando dentro la fontana, complice forse anche il gran caldo.

Questo momento di sollazzo, era servito ad alleviare per un attimo l’ansia di Frank. Anche se per pochi minuti, aveva smesso di pensare al conto alla rovescia. Ma l’effetto positivo era già finito. Ci voleva qualcos’altro per non pensare. Qualcosa di più forte.
Come un drogato in astinenza, Frank, aveva bisogno di emozioni forti, le uniche che distoglievano la sua mente da quel pensiero fisso. Qualcosa di sempre più forte…

Bar Bra'

In una calda ed estiva serata, di stelle costellata, ebbe luogo l'incontro di cui tratta la strana storia di seguito narrata, che con la sua rima baciata, ci parla di due signori nella bella Verona… ma per nulla amanti ed anzi, dalla mente un po' sorniona.
L'Arena di Verona assistette forse quella sera, ad uno fra gli incontri più singolari dei duemila anni della sua éra, comprendendo tutti quelli che ospitò e anche quelli, inveri, di cui solo si narrò.
Romani e Barbari furono ai suoi occhi poco dissimili nei ludi e nei lumi, per via delle molte pance passate per le lance dentro laceri costumi, con manifesto disappunto dei proprietari delle suddette pance, dagli unni e dagli altri spediti in anticipo a scontare il dantesco contrappasso, proprio per colpa del su detto macabro trapasso.
Sul perimetro esterno della piazza nella quale l'Arena stessa si pone, ma all'opposto lato, un giovane, consunto negli abiti e nello spirito, sedeva al tavolino di un Bar che della piazza in questione porta il nome.
Il suo nome è breve come quello del Bar posto al suo perimetrare, del quale usa le stesse lettere anagrammate come le pare. Anche se c'è chi giura che sia l'opposto e che prima che il Bar vi fosse posto, già la piazza in tale modo era chiamata, per l'appunto Brà, come bramata.
Bramata, amata ed altrettanto spesso odiata, a seconda degli usi, dei tempi e degli abusi, spesso in essasi iniziati e poi conclusi.
Da sempre si poneva al cospetto dell'Arena, condividendone con essa sorte e malasorte, che non per caso rima anche con la parola … morte.
Ma alle rime ora poniamo un freno e lasciamo che siano gli avventori a parlare del loro passato alieno, … pardon… del loro futuro e del loro presente, del quale peraltro ci importa poco o niente, in attesa di ascoltare invece la loro storia, che parla d'amore, pazzia e gloria.
E se qualcun altro di loro in rima vorrà parlare, lo perdonerete come fosse un esule che da anni la sua lingua non può più ascoltare.
Magari proprio colui che in una notte stellata, pensò di sedersi vicino all'uomo consunto, da poco giunto, di cui poc'anzi parlavamo, per l'appunto….

Link sul tema:

http://it.wikipedia.org/wiki/Esercizi_di_Stile